Il convivente di fatto partecipa agli utili dell’impresa familiare

(Agenzia delle entrate, risoluzione n. 134/E del 26 ottobre 2017)

Al convivente di fatto del titolare dell’impresa familiare spetta il reddito dell’impresa in misura proporzionale alla sua quota di partecipazione agli utili (comunque, non oltre il 49% dell’ammontare che risulta dalla dichiarazione dei redditi dell’imprenditore). A tal fine, occorre che tra i due sussista un effettivo rapporto di convivenza e che il convivente svolga in maniera stabile le prestazioni di lavoro all’interno dell’impresa familiare.
L’importante precisazione, che apre la possibilità di utilizzare l’istituto dell’impresa familiare anche per queste tipologie di unioni diverse dal canonico matrimonio, è arrivata dall’Agenzia delle entrate a seguito dell’esame di un caso sottoposto alla sua attenzione. Si trattava di un soggetto firmatario di un atto modificativo di impresa familiare con il quale dichiarava, da un lato, la cessazione dal 31 dicembre 2016 della prestazione d’opera da parte della madre e, dall’altro, l’inserimento all’interno dell’impresa della propria convivente di fatto (circostanza confermata dalle risultanze anagrafiche). L’interpellante aveva chiesto se dal 2017 poteva conferire al convivente una parte degli utili dell’impresa familiare.
La risposta del Fisco, affermativa, prende le mosse dalle novità introdotte dalla “legge Cirinnà” (n. 76/2016) sulla regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e sulla disciplina delle convivenze. Tale provvedimento è intervenuto, tra l’altro, sulla disciplina dell’impresa familiare, sia estendendo alle unioni civili i princìpi in materia dettati dal codice civile sia introducendo nello stesso codice l’articolo 230-ter, che regola le prestazioni di lavoro rese in favore del convivente more uxorio. In particolare, viene riconosciuto “al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente (…) il diritto di partecipazione agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, commisurata al lavoro prestato”, mentre il diritto di partecipazione non spetta “qualora tra i conviventi esista un rapporto di società o di lavoro subordinato”.
Passando all’ambito tributario, secondo l’interpretazione delle Entrate, benché l’articolo 5 del Tuir che disciplina i redditi delle imprese familiari citi il solo articolo 230-bis c.c. (“Impresa familiare”) e non anche il 230-ter (“Diritti del convivente”), è proprio quest’ultima norma che, facendo riferimento alla “partecipazione agli utili dell’impresa familiare”, consente di estendere alle convivenze di fatto i princìpi generali che presiedono all’imputazione dei redditi prodotti dall’impresa familiare (come regolati dal citato articolo 5 del Tuir) e, quindi, di attribuire il reddito spettante alla convivente di fatto, derivante dalla partecipazione agli utili dell’impresa dell’altro, in proporzione alla sua quota.